Fare arte nella capitale della storia
Gianfranco Valleriani intervista Jannis Kounellis
“Il più antico degli europei e il più moderno degli artisti”, Jan Hoet, 2002
Fra passato e nuovi ordini
Il rapporto con il passato è un momento cruciale per la coscienza dell’individuo e di una collettività intera; può essere, allo stesso tempo, necessità e vincolo per il dialogo.
Come vive Kounellis il rapporto con questa nostra lunga storia?
Questi temi sono cruciali ed erano già al centro delle riflessioni di quel gruppo di giovani artisti – di cui oltre facevano parte oltre me Pino Pascali, Giulio Paolini – che agli inizi degli anni 60 animava la scena culturale romana.
Continuo a ritenere che le realtà nazionali non possano essere immaginate come organismi isolati, magari proprio a causa di quelle forti identità che gli provengono dal passato. È assolutamente necessario essere presenti, in maniera dialettica, in un dibattito che continua a svolgersi e che va avanti ogni giorno. L’arte moderna nasce come esigenza di essere presenti in questo svolgersi di cose; e l’artista deve configurarsi come un interlocutore capace di partecipare a questa sorta di discussione con gli altri.
In Italia c’è un’identità radicata, ma queste forti presenze culturali devono diventare attualità del dibattito aperto, devono essere offerte e condivise, anche in maniera critica. Non bisogna mai pensare di mettersi nell’”ordine delle cose”, di essere “copia” di qualcos’altro. Lo sbaglio più grande che possiamo commettere è di vivere in noi una condizione imposta di “ritorno all’ordine”. Masaccio non aveva alcun bisogno di un ritorno all’ordine; era una personalità rivoluzionaria che portava il discorso oltre e lo lanciava in una dimensione di vastità mondiale. Le nuove formalizzazioni devono nascere dalle esigenze del presente, per aprirci al dibattito e far diventare l’Italia un interlocutore internazionale. Nessuna chiusura è possibile.
Noi abbiamo la grande occasione di vivere a Roma, in una città che nasce nel grande Impero e che ha una dimensione storica straordinaria. L’impero che c’è sotto i nostri piedi deve rimanere una presenza. Anzi, direi che non dobbiamo tenerlo nel fondo ma riportarlo in superficie, perché noi facciamo parte di tutto ciò, anche se non solo di questo. Le problematiche dell’uomo, della modernità, presuppongono una presenza della storia in quanto storia, per come essa è edificata, per le differenze che essa ci consegna, che distingue, per esempio, la vita in questa città da una vissuta in un contesto storico protestante.
Queste presenze non devono rimanere parole ma diventare atti culturali, perché esse possono consentire anche all’artista un destino popolare; non devono essere abbandonate ma ampliate affinchè diventino valori forti anche per la nostra contemporaneità. Da questo punto di vista credo che Roma rappresenti una grande ipotesi di arte millenaria.
La storia ci consegna grandiosità ma anche miseria e tragedie, commistioni di fatti epocali e piccole storie quotidiane. C’è anche quest’altra parte della storia…
Comunque essa, in tutto ciò, ha un peso per noi e lo capiamo se proviamo a guardare un film come “Mamma Roma”, di Pier Paolo Pasolini. Lì è totalmente presente, in tutte le sue parti; la storia ha essa stessa gli strumenti per essere presente. Il filone del neorealismo italiano è un esempio importante; un film come “Roma città aperta”, di Roberto Rossellini, ci dice che la storia è storia in quanto tale ed è anche storia popolare. Il regista è stato nella storia senza essere contrastato.
E così deve essere per l’arte. L’artista deve poter disporre di condizioni e mezzi. Il museo è una fabbrica del nuovo che produce storia. Purtroppo siamo orfani di strutture culturali di una certa portata, con un profilo storico e statale, che ci possono aiutare a portare avanti questo discorso. E ci troviamo di fronte ad un insidioso fenomeno di globalizzazione, che mina il nostro legame con la storia. Un tentativo, questo, che non è possibile accettare e che dobbiamo contrastare con determinazione. Deve, invece, rimanere l’idea di un “allargamento”, come un fatto anche personale dell’artista, e le strutture culturali devono assecondare criticamente questi slanci di personalità, di fronte ad una storia che ci riempie con le sue difficoltà.
Ricordo la prima mostra personale alla Galleria “Lucio Amelio” nel 1969, a Napoli, e subito dopo l’immediato fiorire di grandi mostre, iniziative, dibattiti. Nel 1960, alla mia prima mostra a Roma alla Galleria “La Tartaruga” c’erano pittori venuti da tutto il mondo; è stata una delle prime mostra della mia generazione. Basta a volte una iniziativa illuminata e le cose fioriscono subito. Il problema sta nel riuscire a far nascere un centro di dibattito per polarizzare attenzioni e interessi.
La “radicalizzazione” dei linguaggi dell’arte
Come entra la storia nel progetto artistico, come si elabora la dimensione della presenza e dell’identità?
Per me l’identità è un fattore linguistico, il resto è mitologia. Tutto parte da come e per chi si scrive inizialmente, dal bagaglio interlocutorio che poi ci portiamo dietro, fatto dalla “formalizzazione” della nostra espressività. La formalizzazione nasce dalle necessità che ci troviamo di fronte e soprattutto dalla “radicalizzazione” della lingua che operiamo, che è importante perchè gli fornisce la spina dorsale. Il dibattito artistico è tutto li, e in una condivisione di un discorso di fondo che si avvia con chi ci sta attorno e con gli amici.
Si capisce che questo processo di costruzione del linguaggio non segue un criterio solo estetico; il paese in cui viviamo o siamo nati non è assente ma partecipa dentro e fuori di noi, come contesto culturale. La lingua, dunque, nasce in una dinamica di dialogo all’interno di una specie di involucro linguistico. Essa è un fatto sociale perchè ha la possibilità di essere capita e compresa dagli altri, e vive in un meccanismo di condivisione.
I linguaggi dell’arte, nel loro inventarsi tra scomposizione e ricomposizione, minano i linguaggi esistenti e spesso producono anche un certo disorientamento.
Ma l’arte si muove sempre in questa dialettica, anche rispetto a se stessa. Penso alla differenze tra il cubismo e l’impressionismo. L’impressionismo va all’esterno con dei colori complementari, luminosi; il cubismo, invece, li fa tornare all’interno. Il cubismo ha un destino conservatore, che lo proietta all’interno, dentro ad un spazio rinascimentale. A livello di superficie penso sia più rivoluzionario l’impressionismo, ma il tipo di conservazione del cubismo porta ad una novità dialettica esplosiva. Senza il cubismo non ci sarebbe stato più niente. L’arte è sempre così, è sempre dialettica anche con la sua storia presente. È stato questo il miracolo della nuova figura. (196)
Il bello? È forse il giusto
A proposito di espressionismo e cubismo, anche per quanto riguarda il bello c’è una tensione a forzare continuamente parametri, a dilatare forme e proporzioni. Lo aveva fatto anche il barocco con le forme rinascimentali.
Qual è il senso oggi di un discorso sull’estetica?
Non so dire cosa sia l’estetica; e neppure per quanto riguarda il bello so dire con esattezza di cosa si tratta. Forse il bello è il giusto. È difficile pensare che l’opera di Pablo Picasso Les demoiselles d’Avignon sia bella, però è bellissima. Non c’era lì un tentativo di fare una cosa bella, ma di trovare una condizione esplosiva, di interrompere la continuità di un quadro, fare delle figure una diversa dall’altra e di capire come farle diverse.
Alla pittura, fin dall’inizio, non si è voluto attribuire quelle proprietà tipiche della letteratura che hanno determinato una forte caratterizzazione fra scritture. La pittura, come lingua, segue il dire, il dialogare.
Il Rinascimento è stato messo in lingua da Masaccio, con un’espressività rivoluzionaria. Noi abbiamo due personalità grandi, altamente ideologiche, che sono Masaccio e Caravaggio – l’uno porta il Rinascimento, l’altro la Controriforma – che hanno dato un’ipoteca grandissima sul nostro futuro. Oggi non si può parlare dell’Italia senza parlare di questi due ideologi. Il destino del pittore italiano è segnato. Se si vuole mantenere un rapporto privilegiato con questa identità è indispensabile riferirsi a quelle esperienze fondamentali che segnano tutte le presenze e creano una distinzione dell’Italia in tutta Europa.
Queste possibilità, che ci vengono dalla storia, bisogna però ampliarle in uno sforzo che ci permette di raggiungere oggi gli altri. Essere dialettici nell’arte, come dicevamo, significa immaginarsi in uno slancio che fa arrivare queste proprietà fondamentali agli altri. In questo modo, si può diventare un artista internazionale, seguendo le strade che ti assegnano altri, magari riferendosi alle atmosfere nordiche, tedesche o svedesi, di Boccioni. è possibile continuare il proprio sentiero di realizzazione a patto che si “torni”, che non si interrompi quella linea. è un discorso che va sempre e costantemente avanti, quello dell’arte, senza mai dimenticare il punto di partenza. è come vedersi dentro un lago antico e portare il messaggio verso l’oceano.
Seguire il destino di “infiltrazioni”
Il bene culturale concretizza la presenza della storia. In che modo il linguaggio contemporaneo può interagire con il bene storico? Come ci si esprime nel luogo della storia?
Il rapporto con la storia e con tutto ciò che concretamente la rappresenta è sempre stato un punto cruciale. Pensiamo a Piranesi, al suo modo di raffigurare la realtà con grandi monumenti e piccoli uomini. Questo accadeva per quel senso di “meraviglia” che si ha di fronte all’antichità, che rimane tuttora quando ci troviamo di fronte al Medioevo piuttosto che all’antichità classica. Credo sia un fatto emotivo, affettivo, non un atto di volontà. Mi è sempre piaciuto Mario Sironi, anche al tempo in cui nessuno lo accettava, perché lo trovavo profondamente “giusto”. È un uomo che aveva un particolare attaccamento al Paese, alle cose con cui gli piaceva giocare. In realtà, non piaceva solo a me, ma anche a tutti i miei amici, e credo piacesse anche ad uno come Alberto Burri. Era incredibile il suo senso di fede, sempre presente anche nei momenti veramente difficili.
Il destino dell’artista internazionale dell’epoca contemporanea nasce dall’amore per le cose che nascono prima come pensiero ma che devono assolutamente seguire delle strade larghe. Parlavamo prima del Rinascimento, ma oggi c’è l’America che è una grande esplosiva realtà. C’è anche una nostra diversa conoscenza degli altri, vicini a noi ma anche molto lontani; come la Cina.
Di fronte a questo allargamento di conoscenze, di possibilità, di incontri dobbiamo trovare i mezzi giusti per “arrivarci”; dobbiamo avere una lingua sensibile ed elastica per entrare e seguire quello che io considero un destino di “infiltrazioni”. Questo è un processo nuovo e reale. Nessun disegno politico può chiuderci di fronte a questo. Oggi le “infiltrazioni” sono molteplici e anche in questo bisogna approfittare per rivelare la loro presenza anche all’interno, diventando noi stessi “portatori di viaggi”. Ricordiamo che si nasce dal passato, mai dal futuro. Il futuro si costruisce e tutti si aspettano che si individui una vita nel futuro. Il passato è certamente la realtà più profonda, ma l’artista deve saper parlare a coloro che, milioni e milioni, nascono ogni giorno, a quelli che non sono nati e che dovranno, anche loro, avere un futuro. Ed è proprio lì, nel futuro, che si deve difendere il passato.
Cattolicesimo e cultura popolare
Lei è di origine greca, ma nasce come artista qui a Roma. Qual è la sua esperienza della storia in questa città?
Io nasco come artista, assieme ad un gruppo di miei amici, agli inizi degli anni 60, in questa città straordinaria e sconvolgente. Roma, infatti, è la sintesi di tutte le contraddizioni italiane sedimentate nei secoli. Ci sono qui delle presenze fondamentali, come il Vaticano, che, al di la della sua fondamentale presenza di fede, dà un segno imperiale alla città. Questo è stato il grande impero romano, che aveva una lingua poliglotta, quale il latino, con cui si sono costruite mille lingue che poi sono diventate mille possibilità di diffondere il cattolicesimo fino ai territori dell’America latina. Il cattolicesimo è per Roma importantissimo, e anche la presenza di questa identità dentro Roma porta dei segni culturali inequivocabili.
Poi c’è la Roma popolare, quella trasteverina che io ho incontrato, e tante altre diffuse nella citta e che davano un segno forte alla vita di questa città.
Roma è in questa commistione di cose diverse e vicine, con la sua natura profonda dove è sepolto e vive segretamente un impero. È questa la differenza con altre grandi città italiane, come Milano o Torino, che io frequento e in cui ho realizzato mostre e iniziative.
Però non bisogna avere paura della novità. Anzi, le novità devono essere così tanto significative da creare una condizione reale per esserci. È importante non fermarsi e non avere paura. Io credo che bisogna accettare e scegliere di essere pienamente nella modernità, perché questo aiuta a far vivere l’Italia nella sua complessità. Bisogna craere quello slancio che influenzi e attiri i giovani, impedendo loro di andare in altri luoghi. Bisogna offrire le condizioni per esserci, essre disponibili ad imparare a gestire le novità che arrivano.
Il rischio che io vedo è che questa quantità di intese che la città racchiude possa non essere adeguatamente espressa e mantenuta per via di alcuni limiti, a partire da un sistema scolastico in cui l’insegnamento delle culture e dei linguaggi cede sempre più il posto a orientamenti di tecnici, a corsi pratici e brevi.
A Roma negli anni 60 c’erano molti artisti e intellettuali. Si leggeva Sandro Penna e i poeti alessandrini, c’era una grandissima vitalità culturale. Rischiamo oggi di mancare nel rinnovare quell’impegno e di accrescere, così, una distanza dal presente nella realtà italiana. Rimango ancora convinto che per scrivere poche righe di buona poesia in lingua italiana bisogna crederci profondamente.
Kounellis tra le rovine dell’antica Roma
Lei ha realizzato alcune opere ed esperienze artistiche per Roma. Ricordiamo, tra le altre, il bellissimo cancello per la Basilica di Santa Croce in Gerusalemme e l’esposizione ai Mercati Traianei.
Come si è accostato a questi spazi della storia?
Il cancello per la Basilica di Santa Croce in Gerusalemme è stato realizzato proprio per l’orto “concluso”, di origine medioevale, che si trova all’interno. L’ordine monsatico è regolato da un principio secolare secondo il quale non è possibile vedere da dentro quello che c’è fuori e viceversa. Io ho creato le possibilità affinché si possa vedere da fuori dentro e da dentro fuori. “Concluso” è un dogma monastico. Io ho inventato una forma affinché questo paradisiaco orto possa essere osservato dal di fuori del monastero e che i monaci possano osservare fuori anche quando pregano. Credo che questo sia una nuova condizione di vivere il monachesimo e la cristianità. La dimensione della “clausura” si sta superando. Il cancello è stato realizzato inserendosi in questa tendenza di avvicinamento e di contatto.
Anche quella ai mercati traianei è stata una bellissima esperienza, con la realizzazione dei armadi di piombo che oggi sono in alcuni musei della Svizzera. Ho lavorato in quello spazio straordinario, sentendomi pienamente a mio agio. Ogni spazio suggerisce qualcosa di diverso e unico, possa essere una fabbrica dismessa o una galleria, qui a Roma piuttosto che a Berlino.
Ma un bene storico può porre imbarazzo, condizionamenti..
Considero il bene storico culturale una presenza attiva e come tale lo vivo. In fondo i luoghi della storia sono le mete preferite dei turisti ed essi sono visitati ogni giorno da persone provenienti da tutte le parti del mondo.
L’artista nasce in una scuola e dunque in un contesto di apprendimento che mette da subito in evidenza le condizioni poste dell’antico. Se si parla di simmetria piuttosto che di asimmetrico comunque sono messi in luce dei principi che partono dall’antichità e che si sviluppano in un discorso che continua nella storia. Se ci si orienta nell’asimmetria la parte dialettica è la simmetria. Dunque l’antico vive in tutte queste migliaia di intenzioni.
Non credo né che il moderno tenda a distruggere l’antico né che in nome dell’antico si debba impedire la libera circolazione della modernità. Questa indicazione di freno alla libertà e all’espressione è determinata proprio dalla paura. Da quella stessa paura che spesso è anche dentro l’arte, perché gli stessi artisti hanno delle paure. Le pitture nere di Goya nascono perché l’ordine antico stava finendo. E perchè nelle condizioni interiori di quell’uomo l’ordine antico finiva. Era una cosa enorme quello che accadeva nella profondità del suo essere. Gli artisti nascono anche da queste paure. Essi non nascono solo da un semplice esercizio estetico ma hanno prima di tutto una vita etica. Quando c’era la civiltà del tonale l’artista con il cavalletto aveva una ragione critica verso le tonalità. Un artista come Pollock (108) vive completamente dentro il proprio lavoro, avendo superato qualsiasi concetto di tonalità. Il lavoro è molto più grande e questa “vita dentro” è una vita di libertà. La condizione dell’artista è in questo vivere dentro l’antichità e dentro al mondo.
L’arte contemporanea potrebbe rivitalizzare il patrimonio storico della città? Dopo un atteggiamento di pura preservazione, è possibile ripartire con un nuovo dialogo tra le arti contemporanee e il grandioso patrimonio storico?
Credo di si, ma bisogna crearne i presupposti. Mi avevano proposto di realizzare un intervento artistico in Cina per le Olimpiadi, dandomi l’accesso alla città segreta dei templi. E allora mi sono chiesto: perché i Cinesi mi concedono ciò che a casa mia è spesso difficile ottenere? Non credo che i cinesi abbiano un attaccamento alle loro cose inferiore a quello che abbiamo noi. De Chirico, come me, è nato in Grecia ed è venuto in Italia a vivere. Anche lui aveva toccato due mondi antichi e le radici di civiltà lontane. Aveva dentro se un’antichità vissuta. Spesso per l’artista è impossibile abbandonare quell’antichità, perchè fa parte di una grammatica interiore fondamentale. Non c’è bisogno di un codice, o di un direttore d’orchestra che diriga e dica cosa fare. È in quell’essere eccessivi, in quel punto in cui l’innovazione è rottura, che si riesce a sviluppare un discorso che oltrepassa la frontiera. Ed è proprio lì, in quello sguardo rivolto al futuro, che l’antichità può essere salvata, diventandone il cuore.
Intervista inedita realizzata a Roma, nel 2009.